mercoledì 25 ottobre 2023

Quattro lungometraggi di Keaton in dettaglio. Contestualizzare il periodo d'oro di Buster

Dopo qualche anno di assenza ritorno a scrivere nel blog occupandomi di Buster Keaton. Nella fattispecie, prendo in esame quattro lungometraggi del grande comico, ne effettuo una recensione approfondita e poi tiro le somme in un breve video. Non sono quattro lungometraggi scelti a caso. Il primo rappresenta l'inizio della produzione nel nuovo formato, il secondo uno dei suoi picchi artistici più notevoli, il terzo un possibile equivoco e il quarto un semi-flop con momenti tutto sommato singolari e a tratti divertenti.

THREE AGES (uscita: 24 Settembre 1923)

Sinossi: Buster, la ragazza che vuole sposare (Margaret Leahy), il suo rivale (Wallace Beery) e i genitori di lei (Joe Roberts e Lillian Lawrence) sono personaggi fissi catapultati in tre epoche differenti: la preistoria, l’antica Roma e gli anni venti del 1900. Il film prosegue intrecciando le varie storie. In tutti e tre i casi il protagonista Buster parte svantaggiato agli occhi dei genitori della sua prediletta: come uomo preistorico è meno forzuto del suo antagonista, in epoca romana è un soldato di poco valore e nel 1900 ha un conto in banca meno importante. Le situazioni comiche proseguono a livello parallelo nei tre racconti (Buster consulta una fattucchiera nella prima, poi un astrologo nella seconda e infine sfoglia una margherita per sincerarsi dell’amore di lei nella terza storia) finché non riesce in qualche modo a uscirne vincitore, precisamente in una sfida alla clava, in una corsa delle bighe e in una partita di football americano. In tutti e tre i casi il rivale tenta di mettere ulteriormente il bastone tra le ruote ma Buster reagisce eroicamente conquistando definitivamente il cuore della sua bella.


Il finale risplende di fulgida ironia keatoniana. L’intento è mostrare il “dopo matrimonio” in tutte e tre le storie. Nella prima scena vediamo la coppia dell’età della pietra uscire per andare a passeggio, seguita da numerosissimi bambini. La seconda ripresa ci porta all’episodio romano. Buster e Margaret escono di casa, stavolta seguiti da un numero minore ma sempre corposo di figli. Nella terza e ultima scena- quella ambientata in epoca moderna- i due escono di casa tenendo al guinzaglio solo un piccolo cagnolino.

Dunque, il primo lungometraggio di Buster Keaton alterna tre storie parallele che raccontano l’amore e il relativo corteggiamento nei diversi periodi della storia dell’umanità appena descritti. L’approccio di Keaton al nuovo metraggio è piuttosto prudente. All’occorrenza si sarebbero potuti facilmente realizzare tre film a due rulli con il materiale di Three Ages qualora nelle anteprime il film finito non avesse funzionato, anche se evidentemente sarebbero stati tre corti forse troppo monocordi nei temi per poter essere facilmente accettati dal pubblico separatamente. La struttura di questo debutto (per un autore di comiche brevi passare al lungometraggio è chiaramente un debutto in senso vero e proprio) è sufficiente per realizzare una buona opera che garantisce un incasso ragionevole ma che chiaramente rimane molto lontana dal successo che ad esempio Charlie Chaplin ottiene due anni prima quando presenta al mondo il suo primo lungometraggio, The Kid (Il Monello). Non bisogna del resto nemmeno stupirsi. Chaplin era arrivato in maniera naturale a una durata maggiore perché, sebbene il suo contratto prevedesse film di minore durata, la sua ispirazione lo aveva scosso da una sorta di stallo creativo che lo attanagliava da alcuni mesi verso il capolavoro di un artista libero di esprimersi senza limiti. A Keaton era stato invece commissionato dal suo produttore, Joseph Schenck, di costruire una storia adatta per un lungometraggio e gli era stato comunicato che l’epoca dei due rulli era ormai terminata per lui. Keaton era del resto ben contento della decisione, anche perché in principio prima di partire con i suoi cortometraggi già aveva fatto un tentativo di persuasione per passare direttamente ai feature films senza l’intermezzo dei two reelers. Inoltre,nei suoi ultimi cortometraggi si era in un certo senso evidenziato un leggero calo qualitativo. Tuttavia, essere ben felice di fare qualcosa e avere subito l’idea geniale per tramutarla in roba d’eccezione e davvero molto complicato. Perciò Three Ages è a tutti i livelli un film spartiacque perché apre la nuova strada da percorrere e allo stesso tempo rimane collegato a quella precedente nell’impianto narrativo uno e trino ma anche nell’uso di certe gag impossibili figlie legittime delle comiche brevi che avevano meno bisogno della plausibilità che ogni lungometraggio che si rispetti, anche se di stampo comico, comunque pretende.

Tornando al discorso dei tre two reelers trasformati in lungometraggio, è curioso citare che durante il Buster Keaton Festival che si tiene annualmente a Muskegon, nel Michigan, più di una volta lo studioso Jack Dragga ha presentato il film diviso in tre parti: The Stone AgeThe Roman Age The Modern Age


Nonostante le durate siano piuttosto discrepanti (il primo corto risulta essere più o meno la metà del terzo) i film, se visti con occhio bonario, scorrono piuttosto bene anche da soli. Nel Blu-ray della KINO, tra gli extra dedicati a Three Ages, questo lavoro di divisione è stato fatto e il risultato è piuttosto buono. L’ultima scena di tutti e tre gli episodi è stata peraltro rimossa perché non avrebbe avuto senso slegata dalle altre. E’ curioso comunque di come questo lavoro di Keaton sia particolare e anche piuttosto unico nel suo genere. Ha raccontato la stessa storia tre volte, cambiando i costumi e adattando le gag alla nuova ambientazione. Il che non è scontato per niente.

Margaret Leahy, la protagonista femminile del film, non aveva esperienza recitativa alcuna. Aveva vinto un concorso, il “New British Film Star”, che per contratto l’avrebbe dovuta far apparire al fianco di Norma Talmadge nel drammatico Within the Law (1923). Il regista si rese presto conto delle scarse doti di attrice della giovane e il produttore Joseph Schenck, per evitare noie legali e convinto che per partecipare a un film comico non vi fosse bisogno di particolare talento, la “sbolognò” al povero Keaton che fece del suo meglio, anche se molte sue scene all’apparenza semplicissime dovettero essere girate più volte prima di risultare passabili; e pensare che in principio il comico aveva pensato a sua cognata Constance Talmadge (una delle interpreti di Intolerance, il film a cui Keaton si era ispirato quando aveva pensato Three Ages) per il ruolo della ragazza, ma Schenck si era rifiutato poiché considerava uno spreco utilizzare due star (Keaton e la Talmadge, appunto) in un unico film.

Nel ruolo del rivale, Keaton scelse Wallace Beery (1885-1949), già attivo negli anni dieci nelle commedie della Essanay e della Keystone, e fresco dell’importante ruolo di Re Riccardo nell’ultimo film di Douglas Fairbanks, Robin Hood (1922). Beery sarebbe diventato una vera e propria star nel decennio successivo, interprete di molti film di successo. Blanche Payson (1881-1964), veterana della slapstick comedy, doveva invece avere il ruolo di una cavernicola alta e grossa che scaraventa fisicamente in acqua il povero Buster, quando questi aveva tentato con lei un deciso approccio da uomo duro, allo scopo di far ingelosire Margaret Leahy.

Nelle sue interviste Keaton ha sempre ammesso che lo spunto del film gli venne dall’epico capolavoro di David Wark Griffith, Intolerance (1916). Quel film è caratterizzato da un interessante montaggio parallelo che incrocia quattro epoche diverse, con lo scopo di dimostrare come l’odio, il fanatismo e l’intolleranza sono riuscite a rovinare la storia dell’umanità. Gli episodi del film di Griffith sono ambientati rispettivamente a Babilonia, al tempo di Gesù Cristo, nella Francia del XVI secolo e nell’America degli anni dieci. Keaton nella sua parodia divertita aveva quindi attinto a uno dei film più impegnati, conosciuti e costosi della sua epoca.

Un altro film di Griffith, Man’s Genesis, cortometraggio del 1912, ispirò a Keaton alcune idee per l’episodio dei cavernicoli. Anche qui il protagonista deve affrontare un rivale prepotente che lo prevarica con l’uso della forza. La scoperta di una pietra e il relativo uso come arma di difesa lo aiuterà nella sua lotta impari. Quelle immagini del film di Griffith contengono una forza espressiva meravigliosa. Keaton evidentemente ne rimase colpito a tal punto che anche lui, nella lotta alla clava contro il suo avversario, farà ricorso a un sasso incastonato nel bastone per sconfiggerlo più facilmente.

Keaton chiese l’aiuto del cartonista Max Fleischer per la scena del dinosauro: ad inizio film appare Buster e a qualsiasi spettatore pare davvero sia adagiato su una roccia, subito dopo la roccia inizia a muoversi e si scopre che in realtà si tratta di un dinosauro. Keaton da ragazzino era stato molto colpito da un film di animazione, Gertie the Dinosaur (1909), di Winsor McCay, e fu questo ricordo che gli portò alla mente l’idea per la scena di apertura che appare in Three Ages.

Kevin Brownlow nel 1986 è riuscito fortunatamente a intervistare uno degli attori che hanno partecipato a Three Ages, Loyal T. Lucas (1904-2001):

Incontrammo ‘Doc’ Lucas o Loyal T. Lucas, come preferiva farsi chiamare, la sera della proiezione di Our Hospitality. Si fece vivo alla fine del film, grande e grosso com’era, con la sua barba da patriarca biblico, e promise che ci avrebbe aiutato in ogni modo possibile. Aveva cominciato la sua carriera come comparsa e The Three Ages era stato il suo primo ruolo vero e proprio, per quanto brevissimo. Lo vediamo distribuire cuscini durante la corsa dei carri.

Ero molto contento anche perché è stata la mia prima vera parte in un film. Avevo sempre fatto la comparsa con compensi fra tre e cinque dollari, quello era un ruolo da diciassette dollari e cinquanta, un’occasione che cercai di sfruttare al meglio.

Loyal Lucas ci raccontò con quanta cura Keaton avesse preparato la scena della ‘partita di baseball’, quella in cui un possente cavernicolo lancia una pietra a Buster il quale gliela rimanda indietro con grande precisione, usando una clava come fosse una mazza da baseball.

Aveva una clava piuttosto storta e nerboruta e anche il sasso che avrebbe dovuto colpire era decisamente irregolare, per questo le cose non andarono bene subito. Ci vollero cinquantadue tentativi per ottenere il risultato voluto, ma ne valse la pena. Il problema era che bisognava colpire il sasso in modo che centrasse completamente il bersaglio sennò avremmo dovuto usare un qualche trucco, ma Keaton non amava usare delle gag finte. [Alla ricerca di Buster Keaton, pagina 69]

Nella scena della corsa delle bighe, Fred Gabourie, lo scenografo di Keaton, costruì la sua versione del Colosseo, versione che risulta piuttosto convincente, nonostante le gradinate superiori fossero in realtà dipinte su vetro, tecnica piuttosto in voga all’epoca che non toglie comunque affatto veridicità a quella splendida sequenza.

E’ situata invece verso la fine la scena più divertente e sicuramente quella più spericolata di tutto il film. Keaton è vittima di un inseguimento. Salito su un palazzo in costruzione, si trova a dover saltare da un edificio al terrazzo di quello adiacente. Il set venne costruito sul tunnel di Hill Street a Los Angeles (già usato da Harold Lloyd) e le fotografie di scena ci mostrano di come l’illusione di altezza che gli spettatori provano guardando il film fosse tanto riuscita quanto fittizia. La cinepresa era situata parallelamente al set in modo che lo sfondo sotto il ponte facesse pensare di essere davvero sopra un grattacielo. Per quella scena, Keaton aveva piazzato un asse di legno da usare come trampolino per il salto che doveva farlo atterrare nell’edificio di fronte. Il salto non fu perfetto e Keaton cadde nel vuoto finendo nella rete di protezione fuori inquadratura. Riportò alcune ferite alle ginocchia che lo costrinsero a letto tre giorni prima di poter riprendere. Nel frattempo comunque, Eddie Cline, Keaton e l’intera troupe stavano riflettendo su come poter cambiare la scena. Alla fine la conclusione fu quella di conservare quella ripresa e renderla parte integrante della nuova versione progettata. Per fare questo venne inserita una tenda a una delle finestre del palazzo che nel film doveva servire ad attutire la caduta che Buster aveva fatto. A film finito, la scena appare quindi così: Buster salta dal trampolino ma manca l’edificio e cade nel vuoto. Un cambio di inquadratura ce lo mostra atterrare nella tenda di una delle finestre sottostanti e sfondarla. Per non continuare la sua caduta si aggrappa a una grondaia che gli fa fare un giro di 180° facendolo atterrare sul pavimento del piano superiore di quella che si rivela essere una caserma dei pompieri. Quindi scende attraverso il palo di uscita verso il piano inferiore dove però per sbaglio si siede sul camion dei pompieri che proprio in quel momento viene messo in moto. A detta di Keaton questa scena risultava per il pubblico la più comica del film. Incredibilmente, era stata originata solo che da un clamoroso errore.

Per via delle insicurezze recitative della sua leading lady, Keaton dovette fare ben otto anteprime -quando invece solitamente la media era di circa un paio- prima di distribuire il film, che ebbe la sua prima americana il 24 settembre del 1923, rivelandosi subito un discreto successo commerciale, anche se il suo autore non lo considerava assolutamente uno dei suoi migliori film, ma un lavoro appena sufficiente con al suo interno scene riuscite e buoni spunti comici.

Three Ages uscì in Italia nel 1925, sotto il titolo di Senti amor mio!. Come già fatto notare, questo film non è il meglio di quello che Keaton poteva fare, ma le critiche italiane non riuscivano neppure a trovare le parole giuste per una valutazione negativa appropriata e mordace. Un esempio può essere la recensione apparsa nel giugno 1926 sulla celebre Rivista Cinematografica. La superficialità dell’analisi e il preconcetto che ne sta alla base è quasi rabbrividente:

Noi comprendiamo che l’umorismo di Saltarello (Buster Keaton) sprigioni nella massa una esuberante ilarità, comprendiamo pure le cosiddette trovate spiritose che vogliono far ridere a tutti i costi. Certo, però non comprendiamo come in tutto questo vi sia dell’Arte e poiché si grida da tutte le parti che il cinematografo deve essere un’arte, questi polpettoni ridanciani possono fare il palato dolce ai più; ma all’appassionato intelligente dello schermo, è pressoché indifferente. Senti, amor mio! è la parodia di tutti i tempi, di tutte le generazioni, di quella dolce leggenda che han creato i poeti per fare più bella la vita: l’amore. Grottesco, imperniato sulla menzogna che anche al tempo della pietra faceva un certo furore e che i nostri tempi moderni tengono pur sempre in onorevole conto. L’amore preistorico, romano, moderno: con tutte le pazzie e le sciocchezze che ogni innamorato ha commesso e continua a commettere per il bel gusto di apparire originale di fronte alla..quasi dolce metà. Saltarello ha modo in questo film di esplicare le inesauribili risorse della sua fredda comicità, svolta attraverso la maschera impassibile del suo viso. E fa ridere e diverte. Quello che non siamo riusciti a capire è stato il soggetto: ma che conta soffermarsi su di una simile bazzecola, quando basta riunire due o tre artisti che improvvisano il soggetto, prima ancora di averlo pensato? Notiamo, oltre al Saltarello, la buona interpretazione di Margaret Leahy e di Wallace Beery.


Provo a dire la mia in poche parole qui



OUR HOSPITALITY (uscita: 19 novembre 1923)

Siamo nel 1800. Tra i Canfields e i McKays, due famiglie di una piccola città, esiste da molto tempo una faida sanguinosa e implacabile. Una sera del 1810, altri due membri delle rispettive famiglie si uccidono tra loro. Un bebè di nome Willie e la sua mamma assistono impotenti all’uccisione del loro capofamiglia. La faida deve perciò continuare. Per proteggere il piccolo, la donna lo affida alla sorella di New York. Vent’anni dopo il bebè è ormai diventato maggiorenne (Buster Keaton) e una lettera lo informa di essere diventato il legittimo proprietario delle proprietà di famiglia. Appresa la notizia, si appresta a partire per il luogo natio e prima del viaggio la premurosa zia (Kitty Bradbury) lo informa della storia della faida, della quale lui era ancora ignaro. Durante il viaggio in treno il giovane conosce una ragazza (Natalie Talmadge) e se ne innamora, senza sapere che si tratta proprio di una Canfield. Quest’ultima lo invita a cena per presentargli la sua famiglia. Alla ricerca della sua eredità (che poi si rivela solo una catapecchia cadente a pezzi), Willie McKay vaga per la città e si imbatte in un Canfield a cui chiede informazioni. Da questo momento in poi tutti i membri maschili della famiglia (il padre e i due figli) cercano in tutti i modi di far fuori il povero ragazzo. Quando quest’ultimo si presenta a cena, Mr. Canfield decide di non ucciderlo per via della legge dell’ospitalità. Finché si trova nella loro casa Willie è al sicuro. Infatti dopo aver casualmente ascoltato questi discorsi, il ragazzo si rende perfettamente conto della situazione e cerca in tutti i modi di non uscire, approfittando anche di un forte temporale per fermarsi la notte. Il giorno dopo fugge e viene inseguito da tutti e tre i Canfield armati di pistola. Riesce abilmente ad eludere il loro inseguimento tra le montagne e le rapide di un fiume. Nel frattempo la ragazza è disperata e cerca di salvarlo quando lo vede in acqua; finisce però lei stessa vittima delle rapide del fiume. La corrente la spinge presto sull’orlo di una pericolosissima cascata. In un sforzo sovrumano, Willie la salva attaccato a una corda come un trapezista. L’atto eroico del giovane salda ancora di più la loro unione. Tornati a casa dopo una vana ricerca, Mr. Canfield e i suoi due figli si ripromettono di partire il giorno dopo a caccia del ragazzo. Dovranno cambiare idea quando troveranno i due giovani abbracciati e appena uniti in matrimonio da un pastore del luogo. Per amore di sua figlia e per magnanimità, l’uomo decide di chiudere per sempre la dolorosa scia di sangue tra le due famiglie.

Non contento di un finale tanto serio, Keaton ci aggiunse il suo consueto tocco ironico. Nel momento stesso in cui Mr. Canfield e i suoi figlioli depongono sul tavolo le armi in segno di amicizia, anche lui fa lo stesso, estraendo da sotto l’accappatoio un vero e proprio arsenale che aveva nascosto in caso di necessità.

Rispetto a Three AgesOur Hospitality è un lungometraggio a tutti gli effetti. Keaton era ormai sicuro di quello che faceva. E’ il suo primo capolavoro. La comicità è solo una parte del film, che in realtà è un intenso dramma su un innocente costretto a pagare colpe non sue, solo per via del nome che porta. Willie McKay viene trattato da oggetto, da strumento che serve per vendicare altre uccisioni ingiuste. Ma lui è al di fuori di tutto ciò. Non si sognerebbe mai di uccidere un Canfield. La volontà intrinseca ma totalmente incosciente di riabilitare un passato anteriore alla sua stessa nascita viene espressa dalla sua estraneità. Ogni essere umano è un percorso personale e unico che non può essere accostato a quello di nessun altro. Keaton ce lo dimostra con questo film. E ci dimostra che sarà proprio lui, un McKay, a salvare da morte certa la giovane Canfield e solo per la forza dell’amore. Forza che riesce a spezzare una catena di dolore altrimenti destinata a non finire mai.

Per evitare poi di scendere nel sentimentalismo, Keaton aggiunge quella splendida gag finale. Anche l’alieno dalle buone intenzioni alla fine è costretto a prendere precauzioni. Non una, ma tante pistole. Tante come i mortali pericoli che aveva dovuto affrontare per ottenere niente altro che la possibilità di vivere.

In aggiunta al suo profondo significato, Our Hospitality anticipa anche alcune opere che Keaton girerà negli anni successivi, in quanto è un meraviglioso affresco sulla natura e sulla lotta dell’uomo che tenta in tutti i modi di sopravviverle, come espresso nell’ultima emozionante parte del film.


Non si può parlare di questo film senza citare anche lo splendido lavoro dell’operatore. Elgin Lessley regala allo spettatore delle riprese e degli scorci spettacolari. La mano di Keaton era sempre fondamentale, ma non va dimenticato che a quell’epoca il ruolo dell’operatore era molto più 
focale rispetto ad oggi.

Lo spunto iniziale della storia fu invece suggerito da Jean Havez, memore della vecchia faida Hatfield-McCoy, avvenuta però una cinquantina di anni dopo rispetto all’epoca in cui si svolge Our Hospitality. Gli Hatfields di Logan County, West Virginia, e i McCoys di Pike County, Kentucky, erano due grandi famiglie, nemiche fin dai tempi della guerra civile americana. Intorno al 1880, una fuga d’amore tra un Hatfield e una McCoy riacutizzò gli antichi rancori tra i clan. Quando negli anni novanta del secolo le autorità dello Stato riuscirono finalmente a placare le ostilità, risultava in una dozzina di morti e altrettanti feriti il prezzo di tale slavina.

La precisione con cui Keaton realizza i suoi film è inedita per gli standard di un attore comico del 1923. George Stephenson e suo figlio Robert avevano creato i primi modelli di locomotiva automotrice (la Blucher, 1914; la Locomotion, 1825; la Rocket, 1929). Proprio su questo ultimo modello si ispirò Buster Keaton nella creazione del buffissimo treno apparso in Our Hospitality. Il film è ambientato nel 1831. Anche la prima, rudimentale, bicicletta viene presa in giro da Keaton. La Gentleman’s Hobby-Horse venne costruita dai suoi collaboratori partendo dai modeli originali ed era così accurata che in seguito il Smithsonian Institution di Washington, uno dei più importanti musei ’del sapere’ degli Stati Uniti, la chiese in prestito per una mostra.

Our Hospitality ha il dono di avere filmato ben tre generazioni di Keaton. Il primogenito Joe, di appena un anno, appare nel ruolo del bebè piangente della scena di apertura. E’ Willie McKay al tempo in cui il padre muore nello scontro a fuoco con il Canfield. La moglie di Keaton, Natalie Talmadge, non voleva che suo figlio apparisse così giovane in un film, forse spaventata dal passato di suo marito, che a quell’età in teatro già si esibiva in numeri pericolosi. Invece il suo ruolo non può essere più tranquillo: piagnucola qualche secondo davanti alla cinepresa e non ha più di tre o quattro riprese. Joe Keaton senior ha invece un ruolo molto importante: è il macchinista del treno antidiluviano che appare nella prima parte della pellicola. La sua parte è così buffa che alcuni collaboratori di Keaton si preoccupavano che avrebbe potuto rubare la scena al figlio, poiché il suo ruolo era situato ad inizio film e il pubblico avrebbe potuto “legarsi” al personaggio del macchinista pasticcione. In realtà le sue scene non sono poi così tante e in definitiva la sua parte appare come una gustosa partecipazione di contorno.

Non contento di avere il figlio e il padre sul set con lui, Buster Keaton ci porta anche la moglie, affidandole il ruolo di protagonista femminile. Invidiosa dell’enorme successo delle sorelle Norma e Constance, Natalie era in cerca della sua chance. La sua interpretazione in Our Hospitality non è affatto sbagliata. La sua recitazione non manca di profondità. Forse, un po’, può peccare di senso dell’umorismo, ma è perfetta in un ruolo serioso come il suo, inserito nel contesto di un film che come detto non è affatto una commedia in senso stretto. Si crearono problemi comunque quando, rimasta incinta del secondogenito durante le riprese del film, risultò complicato coprire a dovere la lievitazione del ventre.

A terminare il quadretto familiare, viene trovato un ruolo anche per Captain, il cane di famiglia. Nel film è più svelto della rudimentale locomotiva (!) e segue il suo padrone fino a destinazione, per l’enorme stupore dello stesso. Poi può contare qualche altra scena, tra tutte quella in cui Willie cerca di giocare con lui per prendere tempo e non uscire da casa Canfield.

Joe Roberts, Mr. Canfield nel film e presenza fissa in quasi tutti i film di Keaton dal suo secondo cortometraggio in avanti, patì un infarto durante le riprese. Keaton era pronto a bloccare tutto, ma l’attore strinse i denti e portò a compimento il lavoro sino alla fine. In seguito un secondo infarto costò la vita al povero attore. Per Keaton fu una grave perdita poiché non era solo un collega ma un affezionato amico, conosciuto sin dai tempi del vaudeville.

La scena più emozionante di Our Hospitality rimane quella del salvataggio della ragazza. Forse vagamente ispirata Way Down East (Agonia sui Ghiacci, 1920) di David Wark Griffith, in cui però tutto avviene su una lastra di ghiaccio, questa scena può essere considerata uno dei massimi exploit della carriera di Keaton. Al momento della “presa” un fantoccio viene usato per risparmiare alla Talmadge il rischio di cadere sulla rete di protezione, ma nel film tutto questo non si nota per niente. Quello che colpisce gli occhi è la straordinaria abilità di Keaton, come attore e anche come acrobata. E’ uno dei momenti più commoventi della sua filmografia.

Sebbene gran parte del film venne girato in location, a Truckee, nel Nevada, la scena clou del salvataggio di Virginia venne interamente ricostruita a Hollywood. Un’enorme piscina fu usata da base per la creazione della cascata e un set in miniatura intorno ad essa servì a dare l’illusione allo spettatore di trovarsi davvero nel luogo.

Secondo i ricordi di Keaton, ci vollero solo tre riprese per girare la scena. Nelle prime due mancò il bersaglio, alla terza fece centro. [John Gillet e James Blue, intervista del 1965]

Era tutto perfetto ma non privo di rischi. Dopo essere stato sotto un tale gettito continuo di acqua, Keaton ebbe bisogno di assistenza medica. L’acqua che aveva assorbito gli fu pompata fuori da orecchie e narici e dovette essere drenato.

Un incidente pericoloso per la sua stessa vita accadde comunque ancora prima, al momento della riprese in esterni. Mentre si trovava nel fiume, la corda di sicurezza che doveva aiutarlo si spezzò e Keaton venne travolto dalla corrente del fiume. Oltre ad evitare l’impatto con le rocce, doveva avere la fortuna di non essere morso da alcuni piccoli serpenti di fiume che gli capitavano davanti. Non poteva sapere se fossero pericolosi o meno. Un ramo d’albero lo aiutò a trarsi in salvo. Tornato a riva, la prima cosa che fece fu assicurarsi che l’incidente fosse stato ripreso dall‘operatore. Così com’è appare infatti nel film, esempio di come Keaton quasi cercasse (inconsciamente) di immettere autenticità al cinema, anche a costo di correre qualche rischio lui stesso.

Qualche tempo dopo l’uscita di Our Hospitality, la locomotiva e il Gentleman’s Hobby- Horse vennero prestati a Roscoe Arbuckle che sotto lo pseudonimo di William Goodrich stava girando commedie per giovani talenti. All’uscita del film comunque venne accreditato come regista Grover Jones. Al St. John è il protagonista del cortometraggio, un due rulli intitolato The Iron Mule (1925). Il titolo è una parodia di un film di successo uscito l’anno prima, The Iron Horse, diretto da John Ford, ma la storia non ha nulla a che vedere con quella del film di Ford. Va detto che al film prese parte lo stesso Keaton, nel ruolo di un capo indiano che prima sale sul treno per arrivare dalla sua tribù e poi scatena un maldestro e disastroso attacco contro i poveri ma più svegli viaggiatori. Alcune scene precedenti- Al St. John prepara popcorn sfruttando il fuoco del motore e in Our Hospitality Joe Keaton si prepara uno spuntino con lo stesso sistema- paiono varianti di quelle apparse nel celebre lungometraggio, anche se il film nel suo complesso si rivela solo una farsa girata e messa su senza troppa concentrazione, sfruttando la base data dal materiale scenico di Keaton.

Tornando a Our Hospitality, nel 2008 lo storico e archivista Paul Gierucki ne ha rintracciata una bozza rudimentale, titolata semplicemente Hospitality (il film uscì con questo titolo anche nelle anteprime ed era il preferito di Keaton). Hospitality non contiene scene addizionali e neanche diverse versioni delle stesse, è però un documento importante che permette di capire la cautela con la quale Keaton affronta il suo primo lavoro “serio”. Il film dura 46 minuti, c’è meno enfasi sulle gag, una lunga sequenza è del tutto assente (quella situata al centro del film, quando Willie prova a pescare) e c’è un’importante differenza nella cronologia delle scene. Questa bozza inizia con Keaton già adulto e quello che nella versione definitiva recita da prologo al film (la presentazione della sua famiglia e l’uccisione del padre) è situato come flashback, nel momento in cui la zia (Kitty Bradbury) lo mette al corrente del suo passato. Il tutto serve a Keaton per “testare” il suo progetto.

Quando uscì questo film Variety paragonò Keaton ad Harold Lloyd (in quel tempo secondo solo a Chaplin): “Our Hospitality si attesta come una delle migliori commedie prodotte per lo schermo e genererà una nuova moda nella concezione del film comico”.Ma non tutta la critica fu altrettanto avveduta. Vi furono testate e riviste di settore molto scettiche sulla qualità dell’opera. A differenza di Three AgesOur Hospitality è un lungometraggio vero, molto serio, nel quale la comicità viene relegata spesso sullo sfondo. Ancora più che Chaplin e Lloyd, Keaton aveva un senso realmente drammatico del suo lavoro. Cercava aderenza alla realtà, precisione storica e sapienza nella ricostruzione delle cose. Alcuni critici rimasero stupiti da questa caratteristica e come spesso succede, il genio può tardare ad essere compreso pienamente.

La Rivista Cinematografica apprezzò tantissimo questo film, distribuito come Accidenti, che ospitalità!:

Andare con il preconcetto di assistere ad una delle solite scene comiche e trovarsi invece dinanzi a una finissima commedia, ecco la sorpresa che hanno ieri sera avuta i frequentatori dell’Imperiale di Roma. La messa in scena che riproduce la New York di cent’anni fa, e la originale interpretazione degli attori che pur mantenendosi su di una linea più che composta, riescono a dare a tutto il lavoro una simpatica tinta caricaturale, hanno contribuito a rendere il film piacevolissimo sotto tutti gli aspetti. Buster Keaton è un comico che- può sembrare un paradosso- fa ridere perché fa della comicità con l’aria più seria di questo mondo. E’ la vera comicità anglosassone che in modo diverso abbiamo già veduta riprodurre da Harold Lloyd e da Charlot.

Buona la fotografia, benché non sempre uguale, e la tecnica adottata per i trucchi, dei quali abbonda il lavoro”.


Mi genufletto davanti a questo film qui


SEVEN CHANCES (uscita: 11 marzo 1925)

Jimmie Shannon (Buster Keaton), uno dei due soci di una commissione di borsa sull’orlo del fallimento, eredità inaspettatamente sette milioni di dollari dal defunto nonno, a patto però che si sposi prima delle sette pomeridiane del giorno del suo ventisettesimo compleanno. Chiede allora di sposarlo alla sua ragazza Mary (Ruth Dwyer) che rifiuta quando viene a sapere dell’eredità, perché ritiene che sia solo quello il motivo della proposta. A quel punto, spinto anche dal volere del socio (T. Roy Barnes) che vede quei soldi come la possibilità di risanare completamente la loro attività, Jimmie inizia a chiedere la mano prima a sette ragazze che già conosce e poi a tutte quelle che incontra per strada, ricevendo sempre secchi rifiuti e derisioni. Quando però viene messo un annuncio sul giornale che accenna all’eredità, la chiesa citata diventa un formicaio di aspiranti spose. Jimmie è costretto a fuggire, anche perché viene a sapere che Mary si è convinta a sposarlo. Dopo il lungo e aggressivo inseguimento da parte delle fanciulle che si schierano compatte come un esercito, e una sfiancante corsa contro il tempo, Jimmie riesce finalmente ad arrivare a casa di Mary alle sette in punto, appena in tempo per sposarla.


L’onda persecutoria dei poliziotti di Cops non era mai terminata. Stavolta non fu il dramma dell’amico Arbuckle a suggerire a Keaton l’idea, ma ordini dall’alto. Joe Schenck spinse forzatamente Keaton a realizzare questa storia, nonostante i dubbi che aveva la sua star. La commedia (scritta da Roi Cooper Megrue, a sua volta basata su un racconto di Gouverneur Morris, uno statista americano della fine del settecento), fu comprata da Schenck per 25.000 dollari. Keaton l’aveva vista a Broadway nel 1916, e già allora non ne era rimasto particolarmente entusiasta. Del resto, il suo giudizio era confermato dal fatto che la commedia era stata uno degli insuccessi più grandi di David Belasco, l’impresario-regista che l’aveva messa in scena a suo tempo nella versione teatrale. In sostanza, era una farsa poco credibile e Keaton ormai voleva delle storie plausibili per i suoi film. L’idea della massa di donne che inseguono il buon partito lungo ponti, colline e staccionate era stata già usata al cinema vent’anni prima di Seven Chances. In How a French Nobleman Got a Wife Through the “New York Herald” Personal Columns (1904) di Edwin S. Porter, un gentiluomo benestante viene rincorso dalle sue spasimanti che erano venute all’appuntamento dopo aver letto un annuncio sul giornale, proprio come nel film di Keaton.

La storia di Seven Chances, comunque ben più complessa, era stata venduta a Schenck dal commediografo e regista John McDermott e nell’accordo tra i due era stato stabilito che ne sarebbe stato il regista dell’adattamento cinematografico. Quindi, Keaton oltre a trovarsi in mano una storia di cui non era molto convinto, doveva anche accettare l’idea di lavorare con un regista che non conosceva e che gli era stato in un certo senso imposto. Le cose però alla fine non andarono esattamente in questo modo, perché date le profonde divergenze di vedute McDermott decise di abbandonare il set dopo solo le prime due settimane di preparativi per le riprese. Keaton prese dunque in mano le redini della regia, con Clyde Bruckman al suo fianco.

Il momento culminante del film, quello che a prescindere da ogni giudizio sullo stesso ne caratterizza il lato migliore, è solo frutto di un’anteprima posticcia. Del tutto assente anche nella commedia stessa. Come Buster Keaton doveva raccontare ad Arthur B. Friedman in una intervista del 1956, la seconda preview fu quella decisiva. Nella sequenza dell’inseguimento, Jimmie Shannon si trova a urtare un masso, che inizia a rotolare giù, muovendone altri due. Deve quindi correre molto forte per evitare tutte e tre le pietre. Keaton ci racconta dell’enorme entusiasmo che questa piccola scena aveva suscitato negli spettatori dell’anteprima, giunti in preda alla più totale ilarità. Per la prima volta in tutta la proiezione si stavano davvero divertendo. A quel punto si decise di allungare la sequenza e renderla il climax del film. Vennero inseriti un numero ingente di sassi per tutta la collina (e ne venne anche scelta un’altra priva di vegetazione per rendere tutto molto più “scorrevole“) e se ne costruirono altri più grandi, fatti di cartapesta. In uno dei tanti capovolgimenti così diffusi nell’universo keatoniano, da acerrimi nemici del protagonista quei massi ne diventano l’improvvisa ancora di salvezza: con incredibile abilità- mista a fortuna- Jimmie Shannon riesce a evitare questa frana che si indirizza contro l’esercito di arpie che vuole catturarlo e le fa definitivamente scappare via.

Keaton- che non amava Seven Chances- era convinto che l’inseguimento finale fosse l’unica cosa buona del film. Come detto in apertura di trattazione, l’enorme massa di inseguitori ricorda vagamente il precedente Cops. La suggestione del numero, la relativa sproporzione e metamorfosi che porta a lampante moltitudine, ribaltando lo status quo dell’inizio (nel quale tutte le donne rifiutavano categoricamente ogni proposta) rende Seven Chances uno dei suoi film meno realisti. Da quando aveva intrapreso il lungometraggio, Keaton voleva essere verosimile. Le sue storie non potevano avere una premessa così “sciocca”. Quando mai si lascerebbero sette milioni di dollari a quelle condizioni? Il testamento, causa scatenante di tutti gli accadimenti del film, non è semplicemente credibile. La storiella pare buona per uno spettacolo teatrale, forse, ma non per un film che richiede la verosimiglianza che il mezzo del cinema impone. Il film è quindi diviso simmetricamente in due parti: la prima, in cui il protagonista intravede prima la possibilità della felicità e poi per alcuni sfortunati dettagli la perde di vista, cercando invano una soluzione; la seconda, nella quale la tanto agognata felicità sembrerebbe più vicina ma pare ostacolata proprio dalle conseguenze creata dalla smania dimostrata nella prima parte.

Le gag tutto sommato sono buone, anche quelle della prima parte. Keaton è sempre brillante davanti alla macchina da presa. Tra le molte, una di esse potrebbe sfuggire a uno spettatore contemporaneo ma è una delle più divertenti. Jimmie entra in un teatro in cui è raffigurata una signorina che pare proprio la vedette dello spettacolo. Una cassa però copre il suo nome: si tratta di Julian Eltinge, un noto artista specializzato in travestimenti femminili. Non stupisce che Keaton, entrato con lo scopo di avanzare la sua proposta di matrimonio, ne esca malconcio e malmenato e si riprenda il dollaro che aveva dato al trovarobe per il pass.

Nel 2011 Kino Lorber ha pubblicato un’ottima edizione Blu-Ray di Seven Chances. Miglioramenti aggiuntivi sono stati integrati alla qualità dell’immagine, rispetto alla pur buona edizione DVD distribuita una decina di anni prima dalla stessa Kino. Tra i più significativi, il restauro della sequenza iniziale originariamente presentata a colori.

La sequenza mostra il passaggio delle stagioni, dall’estate alla primavera, che non mutano di una virgola l’amore di Jimmie Shannon nei confronti di Mary. Keaton l’aveva girata usando il two-color Technicolor, un procedimento da pionieri del film a colori, molto instabile e soggetto a veloce deterioramento. Per l’epoca era qualcosa di insolito e Keaton non era indifferente alle possibilità di evoluzione della macchina cinema e dei miglioramenti tecnici legati ad essa. Per anni comunque questa sequenza era circolata in bianco e nero o nei casi più fortunati con i colori assai compromessi (in Italia era addirittura del tutto assente nelle copie viste per tanto tempo, in tv e non solo). Nell’edizione Blu-Ray appena menzionata, il colore originario e la relativa qualità della sequenza è stato ristabilito partendo da tre copie differenti; il processo di restauro è spiegato in uno dei contenuti extra dallo stesso Eric Grayson, lo studioso che si è occupato del difficile lavoro e il contenuto è molto interessante.

Ogni film di Keaton, se visto con attenzione, si fa notare per i suoi spunti originali. Nel tragitto ufficio del notaio- casa della ragazza , Keaton rimane fermo in macchina e cambia solo lo sfondo intorno a lui, per indicare che ha effettivamente compiuto il percorso. Lo statismo-dinamismo della scena (che poi si ripete nel momento del ritorno dal notaio) è ancora oggi curioso e foriero di riflessioni.

Tra le perle di Seven Chances, non può essere trascurato il ruolo riservato al talento caratteristico dell’attore ebreo Snitz Edwards, presente nel film nel ruolo dell’avvocato che porta la lieta notizia dell’eredità a Jimmie Shannon e che poi continua a seguirne gli sviluppi con partecipazione. All’attore, che apparirà anche in successivi film di Keaton, è dedicata una breve biografia nell’appendice riservata.

Tre le curiosità di questo film, vi è certamente la piccola parte riservata a Jean Arthur, nel piccolo ruolo di receptionist. Negli anni ‘30 e ‘40 l’attrice avrebbe guadagnato una buona notorietà, soprattutto per i film di successo girati con Frank Capra.

Seven Chances ottenne un incasso di quasi 600.000 dollari, nonostante le paure e le riserve di Keaton e l’indubbia debolezza che stava alla base della sceneggiatura.

Intanto, in Italia, continuavano a non capire Keaton. La Rivista Cinematografica descrisse così il film, dedicando allo stesso non molte righe di commento:

Buster Keaton è stato l’eroe delle spassose azioni, e pur riconoscendogli simpaticissime espressioni d’umorista, la sua ironia quasi scettica non suscita completa ilarità. C’è nel suo umorismo qualcosa di statico, di troppo uniforme, che alfine risente di calcolato studio e non è quindi più veramente spontaneo. Comunque, Buster Keaton, a differenza di tanti altri che scendono alla banalità, mantiene in tutte le sue interpretazioni una sobria misura

Eccetto l’ultima, condivisibile affermazione, l’incredibile e pacchiana cecità delle osservazioni scritte nell’articolo ci ricorda ancora come la critica di ogni arte ai suoi primi passi abbia bisogno di allenamento e formazione, prima di giungere ad accettabili livelli di assennatezza interpretativa. Comunque, anche dopo tantissimi anni Keaton continuava a non amare molto questo film, tanto che era contrario all’intenzione del suo partner e amico Raymond Rohauer di rieditarlo nei cinema negli anni sessanta. Nonostante le paure di Keaton, il film ottenne un gran successo quando nel settembre del 1965 fu proiettato al New York Film Festival, dopo ben quarant’anni dalla sua uscita originale. Ancora, Keaton fu costretto a ricredersi e non si trattava certo della prima volta.


Nel commento video riassuntivo la mia opinione rispetto all'opera resta tuttavia vicina a quella che nutriva lo stesso Keaton.


GO WEST (uscita: 1 novembre 1925)

Friendless (Buster Keaton), vagabondo solitario, vende le sue ultime cose e parte alla ventura. La sua prima destinazione, New York City, si rivela troppo caotica; parte allora per il Far West, dove riesce a farsi assumere come manovale in un ranch. Alieno a quel genere di vita e sempre fuori tempo rispetto agli altri (come quando si siede a tavola mentre il resto dei lavoranti ha finito di mangiare e viceversa) non riesce a stabilire reali rapporti con nessun altro membro del ranch, eccetto che con una vacca solitaria, Brown Eyes, che gli salva la vita quando incastrato in una buca stava per essere assalito da un toro. Tra i due “emarginati” nasce affetto reciproco. In seguito, dopo una grande azione eroica viene chiesto a Friendless cosa voglia come ricompensa, e questi risponde al padrone del ranch di concedergli l’amato animale e non sua figlia, come questi in principio aveva inteso.

Le scene del pasto possono essere issate a bandiera di questo film. Il comico, il protagonista di una parodia o comunque di qualcosa di burlesco, ha sempre qualcosa di diverso dagli altri. E’ in distonia rispetto all’ambiente, al luogo in cui opera, a tutto quello che lo circonda. Buster Keaton riesce a organizzare una routine perfetta. Per due volte è sorpreso dalla cinepresa a sedersi in ritardo rispetto a tutti gli altri, proprio mentre il resto del gruppo ha appena finito di mangiare. La terza volta anticipa tutti: si siede, inizia a mangiare avidamente e mentre gli altri sono occupati a lavarsi le mani prende il caffè. Stavolta è lui ad alzarsi a tempo per il loro arrivo, come per sottolineare la differente lunghezza d’onda in cui si trova.

Si è detto che Keaton prese spunto da Chaplin che aveva appena prodotto The Gold Rush (La Febbre dell’Oro, 1925), commuovendo tutti con l’enorme pathos del film e la toccante solitudine del suo personaggio. E’ stata anche avanzata l’ipotesi che Go West (tradotto in Italia con il becero titolo Io e.. la vacca) sia quasi un modo per prendere in giro tale seriosità. Parodiare Chaplin era qualcosa che aveva fatto Billy West. Buster Keaton non ne aveva bisogno, aveva anzi stima del suo “rivale”, anche se non ne condivideva tutti gli aspetti ideologici. E’ molto più probabile che Keaton abbia preso in principio spunto da The Gold Rush come ambientazione storica (il Far West) ma poi abbia deciso di creare qualcosa di personale, anche perché stavolta non aveva a disposizione la sua fidata squadra di sceneggiatori, impegnati altrove, con Harold Lloyd e l’oggi purtroppo semidimenticato Raymond Griffith.


Lex Neal e Raymond Cannon furono infatti scelti per rimpiazzare gli altri e seppur ancora bravi, non erano all’altezza dei precedenti, anche per questo si percepisce una certa debolezza nella storia e nello svolgimento di questo film. Keaton era genio di se stesso, ma per rendere al meglio aveva bisogno della sua squadra. In fin dei conti, non era un individualista, ma il leader di un gruppo del quale era il membro più importante, non l’unico.

L’idea di usare una vacca risulta tuttavia ancora più buffa se pensiamo alla sua idea di partner femminile e a quelle che erano apparse nei suoi precedenti lavori. Keaton non è conosciuto per scegliere come compagne di avventure attrici particolarmente dotate, a dire la verità neanche particolarmente belle. Lo spunto di usare una vacca come coprotagonista venne discussa con Jean Havez, anche se questi non risulta accreditato e non pare abbia contribuito alla relativa stesura della storia.

Secondo il biografo Rudi Blesh la genesi del film avvenne pressappoco in questo modo:

Stavano discutendo [lui e il suo staff] in riunione durante una giornata di pioggia.

Ad un tratto Buster disse Credo che assumerò una vacca. Il tuo tono mise tutti in attenzione. Una vacca del New Jersey, disse. Una vacca chiamata Brown Eyes. Era serio.

Havez rispose nella sua lenta parlata. Le vacche sono più scarse delle attrici a Hollywood, disse, ma possiamo trovarne una. Comunque, Havez continuò, dubito profondamente tu possa ammaestrare una vacca tanto da farla diventare un’attrice. Danno il latte, fanno scendere i secchi e abbiamo finito. Sono vacche, non so se mi spiego.

Trova la vacca, disse Buster. L’ammaestrerò.” [Rudi Blesh, pagine 260-261]

Per permettere alla vacca di seguire i movimenti di Keaton, la troupe prese un filo da cucire di colore nero, legandolo attorno al collo di Brown Eyes e al mignolo dell’attore. La bestia si era così tanto affezionata al suo compagno di scena che non vi furono mai problemi, anzi a quanto pare finiva a volte per volerlo seguire anche in camerino.

Le riprese in location avvennero nell’estate del 1925, al George “Tap” Duncan’s Valley Ranch e si protrassero per tre settimane. Il caldo era così forte che dovette essere usato del ghiaccio attorno alle cineprese per non causare l’involontaria emulsione della pellicola.

Come sempre Keaton si divertiva a prendere spunto dal cinema “alto”. I nomi dei protagonisti, Friendless e Brown Eyes, erano già stati usati in Intolerance (1916) di D.W. Griffith.

In una scena che ha una vaga reminescenza di Androcles and the Lion, dramma teatrale scritto da George Bernard Shaw nel 1912, Friendless rimuove un sasso dallo zoccolo di Brown Eyes, e il gesto gentile fa nascere un sentimento di riconoscenza nell’animale, che poco dopo salva l’amico dall’attacco di un toro aggressivo. Nasce così tra i due uno strano tipo di affetto misto anche ad una certa dose di sentimento di immedesimazione reciproca e diventano quasi inseparabili. Friendless lotta in tutti i modi per non far partire Brown Eyes destinazione vendita e conseguente macello.

Per il climax del film, Keaton aveva in mente una spettacolare corsa di bovini che rincorrendo Friedless, finivano poi per essere portati nel recinto di destinazione. Per giungere a questa scena mozzafiato, si doveva partire con un generale sparpagliamento degli animali nei sobborghi di Los Angeles (qualcosa come trecento capi di bestiame vennero davvero fatti girare nel posto, soluzione impossibile da adottare se solo il film si fosse girato qualche anno dopo) e poi indossando qualcosa di rosso e iniziando a correre Friendless riusciva a portarli al luogo stabilito per il macello. Nella versione definitiva del film, appare davvero la grande massa bovina per le strade della città, anche se le scene in location vennero alternate con altre girate nei pressi dello studio, ma per l’inseguimento finale si dovette ricorrere ad alcuni trucchi fotografici e all’aiuto dei bovari che spingendo gli animali li portavano ad accelerare il passo, poiché le bestie non rispondevano al vestito rosso indossato da Keaton.

Keaton aveva nelle sue corde la parodia, fin dai suoi primi cortometraggi. Non poteva quasi farne a meno. Una scena di Go West parodia persino due film contemporaneamente (un piccolo record, a suo modo!). Friendless si trova a giocare a carte con altri cowboy e scopre che uno di loro sta barando. Ovviamente non ci sta ma il suo tentativo di protesta dura poco perché il suo avversario (Ray Thompson) ha subito estratto una pistola dalla fondina e l’ha puntata nella sua direzione, con l’esclamazione-ordine che recita con un impositivo “Beh quindi.. sorridi…!”. Copiando Lillian Gish di Broken Blossoms (Giglio Infranto, 1919)si tira su i due angoli della bocca per sorridere forzatamente. Ma non si accontenta di parodiare D.W. Griffith. La scena stessa è una versione comica di quella apparsa in The Virginian (Il Virginiano, 1923), di Tom Forman e con protagonista principale Kenneth Arlan. Ma la scena non risulta molto riuscita e il pubblico stenta a ridere, anche perché (come ammetterà in una intervista successiva lo stesso Keaton) finiva per essere più preoccupato per la sua incolumità che intento a carpire il lato comico della situazione.

Tornando all’inizio del film, prima di raggiungere il Far West, Keaton prova la meta di New York, ma rimane sepolto dalla folla e investito da un’auto in corsa. A giudicare da alcune foto che ci rimangono del film, le tappe del viaggio dovevano essere più di due. Una foto ci mostra Keaton seduto tra due carrozze del treno semicongelato e un’altra sempre tra la neve (ricreata con la tecnica del matte painting). Evidentemente aveva provato la strada del Nord, in Canada. Poi ne abbiamo una che lo vede impegnato in tutt’altra scenografia, ovvero appoggiato su una staccionata che da su un campo di cotone, nel profondo Sud.

Non è noto se queste scene vennero eliminate in fase di lavorazione soltanto in seguito, dopo l’anteprima del film.


Comunque, eccetto che la rivista Picture Play (“rimasto senza fiato dalle risate e dal piacere”) e poche altre testate, questo film non venne accolto con grandissimo favore dalla critica di settore dell’epoca e non risulta annoverato neanche oggi tra i capolavori del suo autore.

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